Perché scattiamo così tanti selfie? La psicologia svela cosa si nasconde davvero dietro ogni click

Perché scattiamo così tanti selfie? La psicologia svela cosa si nasconde davvero dietro ogni click

Dai, ammettiamolo: tutti abbiamo quella cartella nel telefono. Sai quale. Quella con 47 versioni della stessa identica foto scattata da angolazioni leggermente diverse, con microespressioni facciali che solo noi riusciamo a distinguere. Magari l’abbiamo cancellata subito dopo aver pubblicato quella “giusta”, ma per un momento siamo stati lì, a scrutare ogni pixel come se fosse una questione di vita o di morte.

E forse, in un certo senso, per il nostro cervello lo è davvero.

Perché se c’è una cosa che la psicologia ci ha insegnato negli ultimi anni è che quel gesto apparentemente innocuo di girare la fotocamera verso noi stessi nasconde dinamiche molto più complesse di quanto pensiamo. Non stiamo parlando del selfie delle vacanze o di quello con gli amici al ristorante. Stiamo parlando di quel bisogno costante, quasi irrefrenabile, di documentare la propria esistenza attraverso l’obiettivo dello smartphone. E soprattutto, di attendere con il fiato sospeso la reazione degli altri.

Secondo uno studio pubblicato sull’International Journal of Mental Health and Addiction dai ricercatori Janarthanan Balakrishnan e Mark Griffiths dell’Università di Nottingham Trent, esiste persino un termine per descrivere questo fenomeno: “selfite”. E no, non è uno scherzo o un termine inventato dai giornali per fare click. È una scala comportamentale vera e propria, sviluppata attraverso ricerche su campioni di diverse centinaia di persone, che identifica tre livelli di intensità: borderline, acuto e cronico.

Quando il selfie smette di essere solo una foto

Facciamo un passo indietro. Scattare selfie non è di per sé un problema. Il punto è capire cosa ti spinge a farlo e quanto spazio occupa nella tua giornata. La differenza tra un comportamento normale e uno potenzialmente problematico sta tutta qui: nella motivazione e nella frequenza.

I ricercatori Balakrishnan e Griffiths hanno identificato tre categorie. Il livello borderline include chi scatta selfie occasionalmente ma non li pubblica. Il livello acuto riguarda chi pubblica almeno tre selfie al giorno sui social. E poi c’è il livello cronico: quello in cui ti ritrovi a scattare selfie continuamente, sentendo un bisogno quasi incontrollabile di condividerne più di sei al giorno.

Ora, prima che qualcuno vada nel panico: la “selfite” non è attualmente riconosciuta come disturbo ufficiale dal DSM-5, il manuale diagnostico che gli psichiatri usano per identificare i disturbi mentali. Non esiste una diagnosi formale, non riceverai un certificato medico che attesta la tua “selfite cronica”. Però questo non significa che il fenomeno non sia reale o che non meriti attenzione.

Diversi studi pubblicati su riviste scientifiche come Personality and Individual Differences, Frontiers in Psychology e Journal of Behavioral Addictions hanno documentato come, in certi casi, questo comportamento possa effettivamente interferire con il benessere personale e segnalare disagi più profondi.

Il trucco nascosto del tuo cervello: benvenuto nel ciclo della dopamina

Ecco dove le cose diventano interessanti dal punto di vista neurologico. Ogni volta che pubblichi un selfie e ricevi un like, un commento, una reazione positiva, il tuo cervello rilascia dopamina. Sì, proprio quel neurotrasmettitore che ti fa sentire bene quando mangi cioccolato, quando ti alleni o quando vinci una partita.

Uno studio pubblicato su Psychological Science da Lauren Sherman e colleghi dell’Università della California ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale per osservare cosa succede nel cervello degli adolescenti quando vedono foto che hanno ricevuto molti like rispetto a foto con pochi like. Il risultato? Si attivano le stesse aree cerebrali coinvolte nella ricompensa e nel piacere, quelle che rispondono anche in situazioni di dipendenza comportamentale.

Il problema? Questa sensazione dura pochissimo. È come una caramella che si scioglie in bocca: buona, ma effimera. E quindi cosa fa il cervello? Vuole un’altra caramella. Vuole un altro selfie, un’altra dose di quella sensazione piacevole. E così si innesca un ciclo che gli psicologi chiamano “rinforzo sociale”, documentato in numerose ricerche sulle dipendenze comportamentali digitali.

Non stiamo dicendo che tutti quelli che scattano selfie sono dipendenti. Ma il meccanismo neurologico alla base è sorprendentemente simile a quello che si osserva in altre forme di dipendenza comportamentale, come il gioco d’azzardo o l’uso problematico dei social media, secondo quanto documentato da Cecilie Schou Andreassen in una ricerca pubblicata su Addictive Behaviors.

L’autostima non si costruisce con i filtri

Qui arriviamo al cuore della questione. Potresti pensare che le persone che pubblicano continuamente selfie siano sicure di sé, quasi narcisiste. E invece, sorpresa: spesso è esattamente il contrario.

Una meta-analisi che ha esaminato diversi studi sul tema ha trovato una correlazione significativa tra la pubblicazione compulsiva di selfie e bassa autostima, insicurezza e persino sintomi depressivi. In pratica, più qualcuno cerca validazione attraverso i selfie, più potrebbe essere vulnerabile agli effetti negativi della mancanza di riconoscimento sociale.

Christopher Barry e colleghi hanno pubblicato su Personality and Individual Differences uno studio intitolato Let Me Take a Selfie: Associations Between Self-Photography, Narcissism, and Self-Esteem. La ricerca ha evidenziato che chi pubblica selfie in modo ossessivo spesso non lo fa per celebrare quanto si sente sicuro, ma piuttosto come strategia di coping per mascherare insicurezze profonde.

Ed è qui che entra in gioco il concetto di narcisismo vulnerabile, diverso da quello grandioso che immaginiamo quando pensiamo a un narcisista classico. Il narcisista vulnerabile non si sente superiore agli altri. Anzi, si sente profondamente inadeguato e usa l’immagine che proietta online come una sorta di armatura protettiva. Ogni selfie perfetto è un tentativo disperato di convincere se stesso e gli altri di essere quello che vorrebbe essere, ma che in fondo non si sente di essere.

Quando il filtro diventa più reale della tua faccia

E poi c’è un fenomeno ancora più inquietante che dermatologi e psicologi stanno osservando con crescente preoccupazione: la “selfie dysmorphia”. Il termine è stato coniato per descrivere una forma di dismorfismo corporeo legata specificamente all’uso dei filtri sui social media.

Un articolo pubblicato su JAMA Facial Plastic Surgery ha documentato come sempre più persone, soprattutto giovani, arrivino negli studi di chirurgia estetica portando come riferimento non una foto di una celebrità, ma un selfie filtrato di se stessi. Vogliono letteralmente che il chirurgo li faccia sembrare la versione digitalmente alterata di loro stessi.

Cosa ti spinge davvero a scattare selfie?
Mi sento bello
Voglio attenzioni
È un'abitudine
Mi rilassa
Non lo so

Pensa alla follia di questa situazione: dopo mesi o anni passati a vedere la propria faccia con occhi ingranditi, pelle perfetta, naso più piccolo e zigomi più pronunciati grazie ai filtri, alcune persone iniziano a percepire il proprio viso reale come “sbagliato” o “difettoso”. Il filtro diventa la norma e la realtà diventa il difetto da correggere. Ramphul e Mejias hanno pubblicato su Cureus una ricerca che esplora questo fenomeno, evidenziando come la tecnologia stia letteralmente alterando la percezione che abbiamo di noi stessi, creando standard estetici impossibili perché basati su immagini digitalmente manipolate.

Il costo nascosto: quando i selfie rovinano le relazioni reali

Ma l’ossessione per i selfie non danneggia solo chi la vive. Ha un impatto anche sulle relazioni interpersonali, e non in modo positivo. Studi pubblicati su Computers in Human Behavior hanno identificato una correlazione tra la pubblicazione frequente di selfie e l’aumento di conflitti nelle relazioni romantiche. E sinceramente, non è difficile capire perché. Immagina di essere in un momento speciale con il tuo partner, ma invece di viverlo, quella persona passa venti minuti a scattare foto, controllare il risultato, applicare filtri e scrivere la caption perfetta.

Fox e Rooney hanno pubblicato una ricerca su Personality and Individual Differences che esplora come certi tratti di personalità, combinati con l’uso ossessivo dei social, possano predire comportamenti problematici nelle relazioni. Quando qualcuno è costantemente concentrato su come appare e su come viene percepito online, è emotivamente assente dalle relazioni reali. È fisicamente presente, ma mentalmente è già proiettato nei commenti che riceverà. Questo crea una barriera emotiva. Le persone vicine si sentono come accessori della narrazione social dell’altro piuttosto che come partecipanti attivi in una relazione autentica. E questo, nel tempo, logora i legami.

I segnali che dovrebbero farti drizzare le antenne

Okay, respiriamo. Non ogni selfie è un grido d’aiuto. Non ogni persona che usa Instagram sta nascondendo un disturbo psicologico. Il punto è riconoscere quando un comportamento normale attraversa quella linea sottile e diventa problematico. Ecco alcuni segnali d’allarme identificati dalla ricerca scientifica e dai professionisti della salute mentale:

  • Scatti selfie così frequentemente che interferisce con le tue attività quotidiane. Se sei in ritardo al lavoro perché devi trovare la luce perfetta, o se perdi momenti importanti perché sei concentrato sulla foto, potrebbe essere un problema.
  • Il tuo umore dipende dalla reazione ai tuoi selfie. Se un post che non riceve abbastanza like ti rovina la giornata, o se controlli compulsivamente le notifiche, la tua autostima è troppo legata alla validazione esterna.
  • Scatti decine o centinaia di foto prima di trovarne una “accettabile”. Un po’ di selezione è normale, ma se passi ore in questo processo per imperfezioni minime che solo tu noti, potrebbe indicare dismorfismo corporeo o perfezionismo patologico.
  • Modifichi pesantemente ogni foto prima di pubblicarla. I filtri occasionali sono una cosa, ma se non pubblichi mai una foto senza ritocchi sostanziali, può essere segno di una percezione distorta di te stesso e di insoddisfazione corporea.
  • Ti senti ansioso o irritabile quando non puoi scattare o pubblicare selfie. Questo è un classico segno di comportamento compulsivo o dipendenza, simile ai sintomi di astinenza osservati in altre dipendenze comportamentali.
  • Le persone vicine a te hanno espresso preoccupazione. Se amici o familiari hanno fatto notare il tuo comportamento, ascoltali. Spesso chi è dall’esterno vede pattern che tu non noti perché ci sei dentro.

Il contesto fa la differenza: non tutti i selfie sono uguali

È fondamentale sottolineare che la ricerca scientifica distingue chiaramente tra uso normale e uso problematico. Non bisogna patologizzare ogni comportamento legato ai selfie. C’è una differenza enorme tra scattare un selfie durante una vacanza speciale perché vuoi conservare un ricordo e condividerlo con persone care, e scattare selfie continuamente, in qualsiasi contesto, passando ore a modificarli e controllando ossessivamente le reazioni. Nel primo caso, il selfie è un mezzo per documentare un momento. Nel secondo, diventa il fine dell’esperienza stessa.

La motivazione conta. Se scatti una foto perché ti senti bene e vuoi condividere quel momento, è un comportamento sano. Se scatti una foto perché ti senti male e speri che la validazione esterna ti faccia sentire meglio, siamo in territorio problematico. Gli algoritmi premiano il coinvolgimento. Le piattaforme vogliono che tu pubblichi costantemente e che rimanga incollato allo schermo controllando le reazioni. I filtri sono resi sempre più sofisticati e accessibili. L’intera infrastruttura è costruita per incoraggiare esattamente il tipo di comportamento che poi gli psicologi identificano come problematico.

Riprendere il controllo della propria immagine

Alla fine, quello che tutta questa ricerca psicologica ci dice è piuttosto semplice ma profondo: quando l’approvazione esterna sostituisce l’autostima interna, quando il numero di like determina quanto ti senti valido come persona, quando la tua immagine pubblica diventa più importante della tua realtà privata, qualcosa si è rotto nel modo in cui ti relazioni con te stesso.

E questa è forse la parte più triste: molte persone che scattano compulsivamente selfie lo fanno perché si sentono inadeguate, ma il comportamento stesso finisce per alimentare esattamente quell’inadeguatezza. È un circolo vizioso dove cerchi all’esterno quello che può essere costruito solo dall’interno. Ma c’è anche una buona notizia in tutto questo. Il riconoscimento del problema è considerato il primo passo verso il cambiamento in praticamente ogni modello di intervento psicologico. Capire che dietro ogni selfie ossessivo c’è un bisogno insoddisfatto di accettazione può aiutarti a indirizzare le tue energie verso modi più sani e duraturi di costruire l’autostima.

La prossima volta che ti trovi a scattare l’ennesimo selfie della giornata, fermati un secondo. Chiediti: perché lo sto facendo? Cosa sto cercando davvero? La risposta a quella domanda può dirti molto su dove ti trovi in questo spettro e se è il momento di ricalibrare il tuo rapporto con l’immagine che proietti e quella che vivi. Perché alla fine, la versione più autentica di te stesso, quella senza filtri e senza l’angolazione perfetta, quella che esiste anche quando nessuno sta guardando o mettendo like, è quella che conta davvero. E merita di essere apprezzata e valorizzata non nonostante le sue imperfezioni, ma proprio grazie a esse.

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